venerdì 25 marzo 2011

Dopo Lunga e Penosa Malattia, Andrea Vitali

Ora, com'è che in questo periodo mi metta a leggere un libro con questo titolo, è fatto del tutto inspiegabile, che al momento mi sfugge. Di sicuro, però, c'entra l'autore, visto che Vitali è da anni sinonimo di evasione "alta", se mi perdonate il termine: una prosa garbata, un'ironia pungente ma mai amara, un umorismo felice e- su tutti- uno sguardo gentile e indulgente sulle cose del mondo capace di riconciliarti all'istante con la vita, anche nei suoi aspetti peggiori. E siccome in questi mesi ne ho bisogno, di viatici e di riconciliazioni, mi sono rivolta speranzosa a questo romanzo, non propriamente una novità (è del 2008), ma fino ad oggi mai finito sugli scaffali della mia libreria. Epperò, è stata una delusione. A tutto tondo, di quelle senza se e senza ma, resa ancora più pungente  dall'affetto che son solita tributare agli autori che mi piacciono e che leggo con regolarità. Ma, davvero, non riesco a trovare un appiglio a cui aggrapparmi per imbastire uno straccio di difesa a questo romanzo, così inconsistente nella trama e così monocorde nella scrittura da farmi venire più volte il sospetto che non fosse il Vitali che amo, il vero autore, ma un fratello, un omonimo o il suo editore, in cerca di un titolo con cui chiudere il catalogo in bellezza.
E' la storia di un medico, il dottor Lovati, minato nel fisico da una grave forma di angina, che si trova per caso ad indagare sulla morte di un amico, il notaio del paese, stroncato all'improvviso da un cuore vecchio e malandato. La "lunga e penosa malattia" che dà il titolo al romanzo è la prima delle molte note stonate che suscitano nel dottore un interesse ben diverso da quello professionale, spingendolo a far domande e a richiedere risposte destinate giocoforza a portare alla luce i tanti scheletri che popolano gli armadi della tranquilla cittadina sul lago che fa da scenario alla vicenda. L'idea, in sè, potrebbe andar bene, così come anche la scelta di sviluppare la narrazione in toni apertamente crepuscolari: la malattia che consuma il medico diventa la cifra di una stanchezza del vivere, che rimbomba nelle nebbie dell'autunno novembrino, nel calare delle tenebre che soffocano il giorno, nel freddo che gela le ossa: la morte è la vera protagonista del libro, sia quando la si cita apertamente, nel ripetersi di riti consueti,  sia quando la si evoca, nella grigia monocromia del paesaggio, nella evanescenza di una vita il cui significato sfuma, a mano a mano che ci si avvicina alla fine di essa.
Fin qui, però, tutto bene.  Bene l'idea, bene la prospettiva, bene- benissimo- la scrittura. Volendo (ma proprio  volendo) si sarebbe potuto frantumare la monotonia di una narrazione volutamente sottotono con qualche guizzo alla Vitali: che so,  una "macchietta", un tocco di colore in questa banda desolatamente ingrigita, per tener sempre desta l'attenzione del lettore. Così non è stato- e pazienza,  me ne son fatta una ragione. Anche perchè la speranza non era tanto uno scossone allo stile narrativo quanto alla trama: che invece, ahimè, non c'è stato.
E qui si torna al solito problema già più volte dibattutto su queste pagine, dell'identità del genere lettarario- e nella fattispecie dell'identità del genere del giallo. Che è quanto di più dettagliato e definito esista nella storia e nella teoria della letteratura. Se è vero che noir si nasce, è ancora più vero che "giallisti si diventa": nel senso che a presiedere la stesura di un romanzo giallo esistono regole ben definite e ben canonizzate che, se seguite tutte e tutte insieme possono contribuire a definire in modo corretto l'ossatura di una trama di questo tipo. Va da sè che il resto lo faccia la scrittura, la profondità di analisi, la capacità di nascondere senza dissimulare e la sicurezza del piglio con cui si conduce la sfida al lettore. Ma le regole son quelle- e guai a sgarrare. Chi lo fa, si trova ben presto a dover tappare falle, con l'affanno di chi sa che per una che si ripara, ne spunteranno altre dieci e tutte più grandi e difficili da arginare. Esattamente come succede a questo romanzo che, ad un tratto, sfugge dalla direzione in cui si era incanalato, diventando del tutto inconsistente. Il plot fa acqua da tutte le parti e la stessa scrittura, non più sostenuta dalla credibilità di una trama, si trasforma in un mero esercizio di stile.
Con tutto ciò, non mi dispero: Vitali è troppo bravo per poter essere mal giudicato per una prova non riuscita e gli devo tante e tali esplosioni di soddisfazione e di gioia, ad ogni lettura di un suo romanzo, che va bene così: a patto che torni alla materia che gli è più cara e al genere per cui ha rivelato negli anni un vero e proprio talento. Anche perchè di giallisti bravi ne abbiamo in abbondanza, mentre di narratori veri, purtroppo, no. E il solo pensare che Vitali possa lasciare la via vecchia per sperimentazioni che non sono nelle sue corde è roba che si tollera una volta- e mai più.

ciao
Ale
Prox rece: L'imbattibile Walzer